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Arriaga, debutto con Charlize pensando all'Italia

di Emanuele Bigi

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30 agosto 2008

Il messicano Guillermo Arriaga, sceneggiatore della trilogia del destino firmata da González Iñárritu (Amores Perros, 21 Grammi, Babel), debutta dietro la macchina da presa con The Burning Plain, in concorso alla 65ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Un viaggio sentimentale nell'animo umano cadenzato da una sintassi che ormai contraddistingue lo scrittore: la non linearità temporale. A rientrare nel turbine delle emozioni una serie di personaggi correlati dalla protagonista Sylvia/Mariana, interpretata da una bella (si sapeva) e brava (si riconferma) Charlize Theron.

Arriaga, cosa l'ha spinta dietro la macchina da presa?
La volontà di raccontare una storia che avevo in mente da quindici anni, sono sempre stato attratto dal deserto e dall'influenza dei paesaggi sulle persone. Mi interessava esplorare il mistero di una donna che compie un viaggio emotivo e come i quattro elementi (terra, acqua, fuoco, aria ndr) influenzino le vite dei personaggi del film. Sin dall'inizio lo spazio e il rapporto tra spazio e attori crea la personalità dei characters.

Come si è trovato in questo nuovo ruolo?
Ero protetto da degli attori grandiosi, tutto il periodo delle riprese lo considero il momento più felice della mia carriera.

The Burning Plain, come le sceneggiature precedenti, hanno in comune la scomposizione del tempo. Perché sceglie sempre questa modalità di racconto?
Nella vita non si raccontano mai storie in modo lineare, ma scomposto. Il cinema è un medium giovane che utilizza raramente questo linguaggio, è molto più diffuso in letteratura, William Foulkner ne è un esempio. Mi interessa adottarlo perché mi sento più vicino alla realtà.

Il tema della morte attraversa un po' tutta la sua "filmografia". Perché?
Mi ha sempre ossessionato, soprattutto il peso della morte sugli esseri viventi. Non sappiamo chi siamo finché con ci relazioniamo con gli altri, la nostra identità è costruita dalle persone che ci circondano. Quindi quando qualcuno vicino a noi muore parte della nostra identità si spezza. Poi la società è ossessionata dalla repressione della morte, per questo mi interrogo continuamente sul suo potere.

Il film è ritagliato tra tragedia e sentimento, due opposti che riesce a tenere in perfetto equilibrio.
L'ho imparato nel corso del tempo, sono stato fortunato, a scuola leggevo Sofocle e Shakespeare, sono sempre stato attratto dal confine che separa la luce dal buio, la tragedia dalla felicità. La contraddizione fa parte della vita e risiede in ognuno di noi, come anche nei miei personaggi.

Come se l'è cavata a dirigere Charlize Theron?
I suoi consigli sono stati essenziali, è un'attrice intelligente, con gusto e talento. Era fondamentale trovare una persona che capisse la profondità del ruolo.

Con Kim Basinger invece?
Il suo era un personaggio rischioso ma è riuscita a interpretarlo con integrità.

Ritorniamo ai luoghi e alla linea di confine, questa volta geografica.
Il film è ambientato tra Stati Uniti e Messico, due realtà completamente diverse a pochi passi l'una dall'altra: l'asfalto in Messico è grigio, in USA è rossiccio. Il contrasto mi serviva ancora un volta per sottolineare l'aspetto contraddittorio che attraversa tutta la pellicola. I luoghi fisici diventano improvvisamente anche metafisici. Il Messico nei prossimi cinquant'anni influenzerà gli Stati Uniti, il numero degli ispanici aumenteranno a dismisura e gli scambi economici sono in continua crescita. Il 90% della cocaina proviene dal territorio americano.

Siamo a Venezia qual è il suo rapporto con il nostro cinema?
Ricordo che da bambino andavo al cinema, con tre pesos vedevo i film di Fellini, Antonioni e Lando Buzzanca. Strano connubio che però mi ha permesso di comprendere gli aspetti sfaccettati della cultura italiana. Amo anche De Sica. Oltre al vostro cinema sono entusiasta degli italiani, per l'affetto e l'energia che sprigionate. Una curiosità: il primo incontro con Charlize l'abbiamo organizzato proprio in un ristorante italiano.

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